AL CINEMA: Che ho fatto io per meritare questo?

CHE HO FATTO IO PER MERITARE QUESTO? di Pedro Almodóvar. Con Carmen Maura, Luis Hostalot, Verónica Forquét, Chus Lampreave. Spagna, 1984. Commedia.

Tratto dal racconto Cosciotto d’agnello di Roald Dahl, Che ho fatto io per meritare questo? ha vinto cinque premi internazionali, e ha ricevuto una nomination ai Fotogramas de Plata. Gloria è stressata: lavora come donna delle pulizie, è casalinga a tempo pieno, è trascurata e bistrattata dal marito tassista, ha un figlio adolescente che spaccia e consuma droga e un altro che si prostituisce a pedofili di mezz’età, e vive con la suocera mezza matta. E le cose non andranno a migliorare.

Se c’è stata una cosa che il successo de L’indiscreto fascino del peccato ha insegnato a Pedro Almodóvar, è stata che le commedie surreali, senza freni e spudoratamente provocatorie avevano una buona risonanza col pubblico, specie in una Spagna che si stava poco a poco riaffacciando a quelle libertà negatele durante il franchismo e che era assetata di eccessi.

Ad appena un anno dall’aver raccontato del convento più libertino di Spagna, affondando lo stiletto nel baluardo del moralismo franchista che era la religione, Almodóvar passa al secondo grande potere totemico del totalitarismo reazionario: la famiglia.

Che ho fatto io per meritare questo? prende molto alla lontana il racconto Lamb to the Slaughter di Roald Dahl, un altro che di satira se ne intendeva, e lo trasfigura fino a renderlo una lente deformante della famiglia sottoproletaria spagnola degli anni Ottanta.

Non è tanto l’omicidio, che è invece il fulcro del racconto, a interessare Almodóvar, quanto piuttosto tutto il contesto sociale che gli fa da sfondo, da ambientazione, e certamente anche da movente. Nel pieno della propria “ribellione adolescenziale”, cinematograficamente parlando, il regista spagnolo non si pone alcun limite: droga, alcol, relazioni extraconiugali, pederastia, abusi domestici, prostituzione (anche minorile), perfino una ragazzina telecinetica che pare uscita da Carrie (anche se, data la fonte, potrebbe essere un omaggio a Matilda), tutto finisce nel frullatore.

In mezzo a scene surreali, condite da uno squisito black humor e da un cinismo di facciata che si diverte a scandalizzare per il gusto di farlo, il pubblico è travolto da un immaginario scatenato e anarchico, che costruisce una nuova normalità in mezzo a un contesto che è invece una folle collezione di anomalie.

Come con il lavoro precedente, Almodóvar rischia di farsi prendere la mano, e la tendenza a sconvolgere (almeno il pubblico dei primi anni Ottanta) tanto per fare è più che mai presente. C’è già però una maggiore misura rispetto all’immediato predecessore, e una voglia di giocare che condisce anche i momenti più grevi di una mordace ironia.

Soprattutto, è evidente come Almodóvar stia crescendo come regista, se non ancora come autore, e alcune scelte di inquadratura (la prima lezione di kendo è puro genio) e il curioso uso della fotografia di Ángel Luis Fernández testimoniano il percorso di un cineasta in evoluzione.

Che ho fatto io per meritare questo? appartiene ancora al periodo del primissimo Almodóvar, quando il cinema era per lui soprattutto l’occasione di togliersi qualche sassolino dalla scarpa contro l’impostazione etico-societaria imposta dalla dittatura. Passo dopo passo, pezzo dopo pezzo, si struttura però l’autore di rilevanza internazionale che sarebbe emerso di lì a poco.

TITOLO ORIGINALE: ¿Qué he hecho YO para merecer esto??

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