AL CINEMA: Kika – Un corpo in prestito

KIKA – UN CORPO IN PRESTITO di Pedro Almodóvar. Con Verónica Forqué, Peter Coyote, Àlex Casanovas, Victoria Abril. Spagna, 1993. Commedia.

Decimo film di Almodóvar, Kika – Un corpo in prestito ha vinto cinque premi internazionali, tra cui il Goya alla Miglior attrice protagonista per Forqué, e ha ricevuto altre nove nomination, sette delle quali sempre ai Goya. Kika è una truccatrice un po’ svampita, che un giorno viene chiamata da un amante, lo scrittore americano Nicholas, per prepararne il figliastro, Ramon, appena morto. Ramon però si risveglia sotto il tocco della donna, e i due cominciano una relazione. Da lì in poi le cose si faranno ancora più bizzarre.

Nel percorso artistico di Pedro Almodóvar, che va dall’anarchismo beffardo, irriverente e dissacrante degli anni acerbi allo spirito più riflessivo e autoriale di quelli maturi, un film come Kika – Un corpo in prestito è probabilmente da inserire nel pieno della transizione dall’uno all’altro, ancora folle e sregolato, ma con qualche elemento che lascia presagire l’evoluzione successiva.

C’è tanta carne al fuoco in Kika, probabilmente troppa, e le storie si accavallano l’una sull’altra non sempre seguendo un qualche filo logico: c’è il triangolo (in realtà almeno un pentagono) amoroso principale, una sottotrama col pornodivo erotomane e stupratore fratello della cameriera lesbica, un’altra sottotrama con la psicologa reinventatasi conduttrice di reality tv, un’altra ancora con un serial killer a piede libero.

Il film si divide in due parti ben distinte, con diversa efficacia. La prima è una scatenata commedia in stile vaudeville, esilarante e surreale, un intreccio di amori e segreti con al centro l’ingenua e svampita protagonista, una strepitosa Verónica Forqué, che conquista, diverte e intrattiene.

Nella seconda parte, invece, Almodóvar abbandona ogni limitazione, e si lancia in una serie di episodi che, per quanto sempre con tono da commedia, si fanno decisamente più morbosi, tra stupri, omicidi, tradimenti, incesti e chi più ne ha più ne metta, una continua sfida alla morale comune che si esaurisce però in una provocazione di dubbia efficacia e fine a se stessa.

Il nodo centrale del film, però, è chiarito fin dai titoli di testa modellati sul Blow-Up di Antonioni, con un servizio fotografico a una modella di intimo che parte da dietro un (finto) buco della serratura e prosegue con inquadrature invadenti e volgari.

Questa invasione dell’obiettivo viene richiamato dal poster de L’occhio che uccide, rimbalza sul voyeur che è diretta citazione da La finestra sul cortile hitchcockiano e sul delitto ricalcato su quello di Sciacalli nell’ombra di Losey, e approda finalmente ad Andrea la Sfregiata, personaggio estremo di Victoria Abril, ex psicologa ora conduttrice de Il peggio della giornata, programma trash morboso e grossolano che la vede vestita cono bizzarri completi sadomaso firmati Jean-Paul Gaultier mentre insegue le proprie storie all’interno di una tuta quasi aliena, con cinepresa sul casco e riflettori montati nel reggipetto.

La reality tv era un fenomeno relativamente nuovo in Spagna nel 1993, e Almodóvar lo affronta di petto, sottolineandone la mostruosità anche a confronto con stupratori e assassini seriali, buttando però il tutto sulla farsa per mantenere il tono grottesco e scanzonato del resto del film.

Kika – Un corpo in prestito non sa decidersi bene sulla direzione da prendere, impila sottotrama su sottotrama fino a che non seppellisce del tutto o quasi il nodo principale, punta così tanto sulla provocazione a tutti i costi da rendere anche i tentativi di umorismi più cinici e nichilisti che bizzarri.

Eppure, in mezzo a questi stralci sregolati e burleschi, al citazionismo bulimico, alla satira elementare e a tutti gli eccessi tipici del cinema post-franchista, già si intravede la possibilità di un cinema altro, un germe pronto a maturare che prenda per mano la passione anti-borghese e la trasformi in qualcosa di bello. Ancora non ci siamo, ma manca poco.

TITOLO ORIGINALE: Kika

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